Cie e frontiere

 

Alta tensione nel CPR di Bari Palese
Tre rivolte in un solo mese

16 dicembre 2018, reclusi incendiano materassi
Alcuni immigrati reclusi nel Centro di Permanenza e Rimpatrio di Bari Palese hanno incendiato un paio di materassi, affumicando il modulo numero 2. Nessuno è rimasto ferito, ma la tensione resta alta.

14 dicembre 2018, fuoco e scontri nel CPR
Secondo le dichiarazioni delle forze dell’ordine alla stampa, alcuni reclusi hanno incendiato le celle, devastato alcune stanze contenenti documenti e allagato i corridoi. I media ovviamente parlano di “ospiti” che hanno distrutto “moduli abitativi”, come se non si trattasse di un campo di concentramento.
La rivolta sarebbe scoppiata per evitare una deportazione di massa in Nigeria, prevista in serata. Le informazioni che circolano al momento parlano di detenuti cosparsi di sapone per evitare di farsi bloccare, così come di acqua insaponata per impedire alle forze dell’ordine di compiere cariche sui pavimenti scivolosi.
Sul posto sono giunte diverse pattuglie di polizia che hanno attaccato i rivoltosi, i quali hanno provato a resistere lanciando alcuni oggetti.
Per ora si parla di un poliziotto, due carabinieri e diversi reclusi feriti. L’incendio è stato domato dai vigili del fuoco che hanno operato con alcune squadre. I danni alla struttura non sono ancora stati quantificati ma sembrerebbe che l’incendio abbia coinvolto molte parti del Lager.

3 dicembre 2018, tentata evasione dal CPR         
Nel CPR di Bari Palese sono attualmente recluse circa 90 persone.
In cinque avrebbero sottratto le chiavi agli operatori di Badia Grande (cooperativa trapanese) per tentare di aprire le celle ai propri compagni di prigionia e darsi alla fuga evitando l’espulsione. Purtroppo l’intervento di alcuni poliziotti ha impedito che l’evasione andasse a buon fine.
Questa volta è una persona che lavora nel lager a raccontare l’episodio alla stampa e non è dato sapere se queste cinque persone coraggiose stanno subendo una rappresaglia.
Quello che è certo è che, oltre a questa dichiarazione, gli unici a prendere parola su ciò che avviene in quel centro di detenzione amministrativa sono purtroppo le guardie del Coisp, che utilizzano le sofferenze dei detenuti per chiedere di rafforzare la militarizzazione del centro.
Nessuna voce delle persone recluse esce da quelle mura, nessun momento di solidarietà ha attivato una comunicazione volta a combattere l’isolamento.
Eppure nel lager di Bari Palese, da sempre considerato una struttura punitiva dove lo stato trasferisce chi lotta in altri centri, c’è chi combatte.
Secondo le guardie, la struttura versa in condizioni pietose e le persone recluse si ribellano frequentemente, danneggiando e provando a evadere.
“Mancano medicinali, siringhe e, in alcuni casi, a causa della mancanza di garze, i pochi addetti hanno dovuto far ricorso persino a della carta igienica per curare ferite”, dichiarano le guardie, aggiungendo che spesso mancano anche i pasti e l’acqua calda, che ci sono blatte ovunque e larve di vermi nel latte, così come si registrano numerosi casi di scabbia, epatite e infezioni dovute alle condizioni in cui le persone sono costrette a vivere.
A detta del garante dei detenuti, anche il CPR di Brindisi Restinco è nella stessa situazione.

Che la solidarietà non resti solo una parola per ornare i comunicati degli antirazzisti.

Finché dei CPR non restino che macerie, sosteniamo la lotta delle persone recluse.

[https://hurriya.noblogs.org/post/2018/12/15/fuoco-e-scontri-nel-cpr-di-bari-palese]

 

 

Contro i Cpr, ancora

 

 

Porto mercantile, varco nord. L’hotspot a Taranto

Riproponiamo un articolo sull’Hotspot di Taranto, tratto dall’opuscolo “La carta è solo carta. Sulla detenzione amministrativa in Puglia”, pubblicato a Lecce nell’agosto 2016.
Creato per trattenere, identificare e schedare gli immigrati intercettati nel Mediterraneo, al campo di Taranto sono inviati anche molti dei migranti rastrellati dalla polizia a Ventimiglia, Milano e nel nord Italia in generale, fra chi tenta di passare il confine con la Francia. Condotti al sud in autobus, rinchiusi e schedati, molti tornano poi sul territorio in condizione di marginalità e “clandestinità” fabbricate ad arte dal meccanismo legislativo.

Per avere un’idea di cosa sia il nuovo hotspot di Taranto non si può fare a meno di fare cenno a cosa è questa città la cui vita è da sempre stata assoggettata all’arroganza del potere degli Stati e delle loro strategie di dominio.
Guerra, industria, repressione, avvelenamento regnano sui quartieri di una città da sempre condizionata dalla sua posizione di vedetta sul Mediterraneo. Un mare sui cui fondali sono adagiati i sottomarini di guerra con le loro testate nucleari, insieme ai resti di chi dalla guerra ha provato a fuggire.
Guerra, capitale e repressione assumono a Taranto una forma nitida e tangibile: quella del muro dell’arsenale, quella delle ciminiere dell’Ilva, della raffineria dell’Eni, e in ultimo quella dei tendoni dell’hotspot. Tutti anelli di una stessa catena.
In questa città ben tre chilometri di costa sono sottratti agli abitanti dalla servitù militare dell’arsenale che, nel mezzo del centro urbano si estende per 90 mila ettari, circondato da un muro alto 7 e lungo 3250 metri. In quello che è uno dei bacini navali più grandi d’Europa, nel 2005 veniva inaugurata la scuola sommergibili della Marina Militare, con mezzi a disposizione anche delle forze NATO e di altri alleati. L’anno prima era stata inaugurata la Stazione Navale nel Mar Grande: altri 60 mila ettari di acqua e terra preclusi per servitù militari.
Come è noto il grande mostro di Taranto rimane il suo gigantesco impianto siderurgico. Accanto alla fabbrica di cemento Cementir e alla raffineria dell’Eni che emette in modo incontrollato gas altamente velenosi nell’atmosfera, sorge l’Ilva: una delle più grandi acciaierie d’Europa. Su una superficie pari a tre volte quella della città, produce acciaio con un processo a ciclo completo: ciò vuol dire che all’interno del siderurgico entrano le polveri minerali ed escono i semilavorati, tubi e lamiere. Giustificato dallo sviluppo e dalla modernità, Taranto è diventata la prima città d’Europa per incidenza tumorale e oggi produce ben il 92% della diossina italiana. Un primato non da poco.
Come da protocollo, le agenzie governative chiamate a valutare la qualità dell’aria hanno fatto il loro lavoro anche in occasione dell’allestimento dell’hotspot, giacché il suo posto era stato individuato proprio al di sotto dei nastri trasportatori (una rete di quasi 200 km su cui viaggiano all’aria aperta polveri minerali e semilavorati) e a ridosso del varco Nord del porto mercantile. Il monitoraggio è durato circa 24 giorni dopo i quali sono stati rilevati sforamenti di quattro volte oltre il limite consentito per la dispersione in atmosfera di polveri sottili. Il dato, tuttavia, non è stato ritenuto rilevante e l’hotspot è stato inaugurato a metà del marzo 2016. Il fatto non stupisce se teniamo conto che l’ARPA è la stessa agenzia che per anni ha taciuto sugli sforamenti dell’Ilva e della Cementir. Inoltre, se abbiamo in mente che il committente di questa relazione è lo Stato italiano, lo stesso che con 10 decreti ha legittimato l’attività di una fabbrica che continua a mietere morte, il fine appare più chiaro. Il capitalismo, il profitto, sempre loro a dettar legge.

L’intenzione di aprire in città un campo di identificazione per stranieri era comparsa già il 13 maggio 2015 nella sede del Parlamento europeo di Bruxelles. Una ditta di Trepuzzi, in provincia di Lecce, la R.I., ha vinto il bando da 900 mila euro per la costruzione della struttura che si estende sull’area di un vecchio parcheggio, per 10 mila metri quadri ed ha una capienza ufficiale di 400 posti letto.
All’interno del doppio cordolo di muro e rete metallica sono posizionati una decina di container per le prestazioni sanitarie e i controlli di polizia e due grandi tensostrutture, una adibita a mensa e una a dormitorio. Dopo quattro mesi i tendoni bianchi del campo sono diventati rosa, la caratteristica tinta ferrosa che colora i palazzi del rione Tamburi, quello a ridosso del siderurgico. Ora anche gli immigrati rischiano di beccarsi un tumore, proprio come noi, e Taranto dimostra a tutti cosa sia davvero l’integrazione…
L’insediamento di un nuovo ed ulteriore luogo di oppressione in questa città è avvenuto nella quasi completa indifferenza sociale. Il problema pare non riguardare i tarantini, già rinserrati e isolati nei loro drammi personali. Le malattie mortali o fortemente invalidanti causate dai veleni dell’industria non sono riuscite a scatenare la rabbia sociale contro i responsabili di questo disastro. In questa condizione di spossessamento e disperazione sociale è facile rimanere indifferenti di fronte alla costruzione di una frontiera, oppure addirittura di giustificarne l’esistenza, in funzione difensiva da un vago ma minaccioso pericolo che viene da lontano. Eppure questo nuovo campo di concentramento per senza documenti rende palese che la frontiera chiama tutti a fornire una giustificazione produttiva dei nostri spostamenti e delle nostre esistenze, certificare carte alla mano la nostra disponibilità ad essere mappati e sfruttati all’interno dei sistemi economici. Quelli che godono del diritto di cittadinanza hanno la possibilità di ammalarsi nel petrolchimico o nel siderurgico o di suicidarsi quando perdono il lavoro. Quelli che cittadini non sono hanno la possibilità di fornire le loro generalità per ricevere in cambio un badge, moderno contrassegno per internati, che darà loro un diritto di sopravvivenza lungo sette giorni, in una città malata e blindata dalle guardie.
Questo cartellino viene rilasciato all’interno dell’hotspot solo a coloro che accettano di farsi identificare e dà accesso ai servizi minimi per sette giorni, dopo i quali, di regola, si viene smistati nelle strutture della prima e seconda accoglienza. Chi rifiuta l’identificazione, resta rinchiuso nell’hotspot fino al trasferimento in un Cie o all’emissione di un provvedimento di espulsione.
Con il badge ben in vista gli stranieri possono allontanarsi dal centro fino alle sette di sera e possono consumare due pasti al giorno all’interno della struttura. Il metodo pare ora provocare meno grattacapi ai gestori, dopo che nelle prime settimane di vita dell’hotspot si erano verificati disordini e fughe.
Nel marzo 2016, ad esempio, duecento marocchini destinatari di respingimento differito erano stati buttati fuori senza cibo né soldi e si erano radunati alla stazione, bivaccando per strada senza alcuna possibilità di andare via.
A metà aprile 2016, circa 80 migranti erano fuggiti dall’hotspot rifiutando di farsi identificare. In quella circostanza si scatenava una vera e propria caccia allo straniero condotta non solo dai militari e dalle forze di polizia ma pure dai vigili urbani. Particolare anche il ruolo dell’azienda comunale dei trasporti, l’Amat, i cui autisti non hanno rifiutato di prestare il loro contributo, partecipando attivamente alle retate. Riacciuffati per le strade della città, i fuggiaschi furono ricondotti nell’hotspot a bordo dei mezzi pubblici della suddetta Amat.
La possibilità, sebbene limitata, di circolazione degli immigrati ha fatto sì che l’hotspot abbia diffuso la sua attività di controllo e repressione in tutta la città. Infatti non c’è modo di capire cosa sia quel posto senza guardare le strade pattugliate.
Eppure in pochi hanno percepito come una minaccia la presenza dell’esercito per le strade. Armati di mitra, con le loro camionette riportano a chiare lettere il nome della loro missione: strade sicure. Stazioni dei treni e autobus sono presidiate dagli agenti e non è possibile nemmeno avvicinarsi ai binari se non si è in possesso di un biglietto. Va da sé che il colore della pelle è il primo indicatore di sospetto per i controllori. In pratica oggi Taranto è una vera trappola. Eppure, in questi mesi, provando solo a guardare verso quel luogo infame, abbiamo visto fughe bellissime, corse con il sangue agli occhi e la fame di libertà di chi ha sfruttato ogni varco, ogni minuto di distrazione dei secondini per riprendersi la vita.
Immediatamente commissariata per presunti brogli nei bandi di attribuzione, la gestione dell’hotspot è stata affidata dalla Prefettura al Comune di Taranto che ne ha demandato la direzione al comandante dei vigili urbani, Michele Matichecchia. Una delle sue prime trovate è stata quella di ripulire con solventi chimici i polpastrelli ricoperti di colla di chi cercava di non farsi identificare per poter proseguire il suo cammino senza restare intrappolato in Italia.
I servizi interni come ristorazione, traduzione, assistenza sanitaria, sono ancora attribuiti in modo estemporaneo ed emergenziale a piccole ditte locali, mentre la mediazione culturale è nella quasi esclusiva competenza di alcune Onlus, fra cui spicca l’associazione “Noi e Voi”. Diretta da un prete, l’associazione si definisce dedita al “volontariato penitenziario”, infatti oltre all’hotspot tarantino opera pure nel locale carcere, evidentemente a proprio agio fra repressione e pietas cristiana.

Questo bel “fiore all’occhiello” della detenzione dei migranti ultimamente è affiancato da un’altra struttura che ufficialmente ne è indipendente. Si tratta del centro di accoglienza straordinaria sito ai margini del quartiere Paolo IV. Questo capannone industriale è da tempo utilizzato come residenza per immigrati benché solo da pochi giorni abbia assunto la denominazione ufficiale di CAS. Ancora una volta è l’associazione “Noi e Voi” ad erogare i servizi interni.

[La carta è solo carta, agosto 2016]

 

 

Taranto – Contro le deportazioni, rivolta ed evasione dall’hotspot

Nel pomeriggio del 14 novembre scorso 40 persone presenti da giorni nell’hotspot di Taranto hanno portato avanti una protesta contro le deportazioni, scontrandosi con le forze dell’ordine. In due sarebbero riuscite a scavalcare la recinzione ed evadere dal lager di stato.

Apprendiamo la notizia dall’unico articolo di un quotidiano locale che riporta il fatto, e del quale ricopiamo di seguito alcuni brani.

“Nel primo pomeriggio, intorno alle ore 14.00, sarebbe scoppiata una protesta dei quaranta migranti – da 4 giorni nell’hotspot in zona Porto, al Varco ovest – perché rischiano di essere rimpatriati. I migranti avrebbero protestato in modo aggressivo: uno di loro, in particolare, avrebbe ferito ad una gamba un carabiniere intervenuto a riportare l’ordine, con un occhiello metallico staccato da un modulo. La rabbia dei migranti sarebbe poi sfociata in una sassaiola contro le forze di polizia intervenute. Due migranti, che sarebbero poi scappati, avrebbero scavalcato la cancellata e, dai binari della ferrovia, avrebbero lanciato sassi e cocci di vetro contro gli agenti. Il massiccio intervento delle forze dell’ordine avrebbe poi arginato la protesta e ristabilito l’ordine”.

“L’hotspot tarantino, in questi mesi sotto la lente d’ingrandimento dell’Anac – Autorità nazionale Anticorruzione – vedrebbe il transito di migranti che da località come Ventimiglia, arrivano con i bus, percorrendo 1100 chilometri fino alla provincia ionica, per le procedure di identificazione. Tra le anomalie riscontrate dall’Anac ci sarebbe l’affidamento diretto ad una Onlus ‘Noi e Voi’, che tutt’ora gestisce l’assistenza generica ed amministrativa dell’hotspot. A cui il Comune di Taranto con ‘carattere d’urgenza’ aveva affidato la gestione dei suddetti servizi nel marzo 2016. Al termine della scadenza, c’era stata una procedura a cui avrebbero partecipato tre soggetti economici, con la sola ammissione della ‘Noi e Voi’ Onlus”.

“Andando sul sito del Comune di Taranto, inoltre, si può consultare il bando di gara per la ‘procedura aperta relativa all’affidamento delle attività per la gestione ed il funzionamento dell’hotspot’. Questo bando, però, datato 11 ottobre 2018 e con scadenza al 26 ottobre 2018 è stato sospeso dopo soli sette giorni, in data 18 ottobre 2018”.

fonte: https://hurriya.noblogs.org/post/2018/11/15/taranto-contro-deportazioni-rivolta-evasione-dallhotspot/

 

 

“La carta è solo carta”: sulla detenzione amministrativa in Puglia       

In questa pubblicazione del 2016, un approfondimento su Cie, Hotspot, Centri per richiedenti asilo e Sprar  in Puglia.

Ciò che queste pagine propongono è di illustrare la struttura della macchina della detenzione amministrativa in Puglia. Una regione da sempre marginale nelle geografie del capitalismo, a causa della sua scarsa industrializzazione, che ora prova a riesumare la sua posizione storica di “Porta d’Oriente” nel Mediterraneo, non riuscendo a guadagnarsi altro che un ruolo di periferia funzionale al grande mercato globale. In quest’ambito la Puglia oggi gioca la sua parte, anche, con la capillare diffusione della rete di quella che, con l’ormai consueto capovolgimento di senso delle parole, è chiamata “accoglienza”.
Una premessa è d’obbligo. Non si può comprendere appieno il funzionamento della grande macchina della detenzione amministrativa se non si considera la sua funzione sociale e politica e se si trascura di guardare alle intenzioni degli “ingegneri” che l’hanno progettata, prima ancora dei “conducenti” che ne permettono il funzionamento.
Il sistema della detenzione amministrativa in cui incappano tutti coloro che non possiedono un documento di cittadinanza è una complessa struttura per il contenimento e la regolazione degli spostamenti umani sul territorio europeo. Tale struttura è il risultato materiale di un’espansione mostruosa della logica capitalista che interpreta tutto l’esistente sotto la luce, fosca, delle dinamiche di mercato e attribuisce ai flussi umani gli stessi parametri di gestione e gli indici di valore che usa per le merci.

Agosto 2016

Scarica o leggi tuttto: la_carta_è_solo_carta.pdf

 

 

Stragi di stato

In vista delle udienze di appello per gli arrestati durante la manifestazione del Brennero del 7 maggio 2016, invece di seguirne le scadenze con presenze davanti al tribunale di Bolzano, da un’assemblea allo spazio anarchico El Tavan di Trento si è deciso di proporre una giornata di iniziative nelle varie città per il 12 dicembre, anniversario della strage di piazza Fontana. Le stragi di Stato continuano: il Mediterraneo è un gigantesco cimitero.
 
L’idea è quella di intrecciare la solidarietà a imputati e indagati con la ripresa di un percorso contro le frontiere e il sistema che le impone e le protegge. In particolare, di ricordare quanto sta accedendo al largo delle coste e nel territorio della Libia, sulla natura assassina della politica del governo italiano e sul ruolo dell’ENI.
 
A Lecce, come contributo a quella giornata, è stato diffuso un manifesto durante il corteo No Tap dell’8 dicembre. Anche perché ENI, attraverso SAIPEM, è coinvolta nella realizzazione di una parte del gasdotto TAP.

 

 

Intervista a due reclusi nel Cie/Cpr di Brindisi Restinco

Quella che segue è un’ennesima”intervista”dal Cie/Cpr di Brindisi Restinco. Molte delle cose raccontate dalle voci dei reclusi sono già state testimoniate in più occasioni, riteniamo comunque giusto pubblicare ancora una volta un’aggiornamento dall’interno di quelle stanze, attraverso due voci che con rabbia e lucidità raccontano l’attualità in questo lager per immigrati «irregolari».

Scioperi della fame sono accaduti nelle ultime settimane, per protestare contro i pasti scarsi e spesso rancidi, e per la libertà dai carcerieri del centro. L’isolamento dall’esterno e l’esasperante permanenza che per molti si protrae oltre i 6 mesi sono tali da indurre alcuni di loro a sperare di uscire a costo di essere espulsi. Chi invece preferisce rivendicare la propria dignità con ogni minimo tentativo di protesta, viene immediatamente prelevato nella notte – senza preavviso – per essere trasferito in altri Cpr, oppure condotto a Roma per l’espulsione.

Nel 33 minuti si accenna anche alla presenza di Adriana, donna trattenuta nel centro e in sciopero della fame da poco più di una settimana, passando i giorni nel centro tra paura e solitudine, nel disagio ulteriore di trovarsi reclusa in una sezione maschile.

Il nostro proposito è di rilanciare la solidarietà alle/i recluse/i contro l’isolamento di queste barriere, con le quali la società all’esterno crede di non aver alcun legame. Il nuovo decreto Minniti dimostra il contrario, accostando alla ridefinizione di Cie in Cpr tuttta una serie di rafforzamenti alle politiche securitarie di guerra agli esclusi e alle lotte autoorganizzate.

Giusto per citare un esempio, il daspo di quartiere, col beneplacito e le congratulazioni dei nuovi candidati sindaco alle prossime elezioni amministrative leccesi, rischia di applicarsi su chiunque esprima dissenso per le strade. E le lotte contro carceri, Cpr e frontiere sarebberro certamente tra i bersagli di questto decreto.

Che le fiamme dell’”inferno di Brindisi”(così il detenuto intervistato tiene a nominare il Cie di Restinco) possano rivoltarsi verso chi questo «inferno» l’ha creato.

L’intervista:

 

 

Tentativo di suicidio al Cie di Brindisi- Restinco

Si sono spese tante parole sul Cie di Brindisi, l’unico in Puglia ancora attivo nella detenzione ed espulsione di immigrati prelevati dai blitz di polizia nelle città del nord Italia, o qui trasferiti dopo aver scontato una pena in carcere. Pene che trovano continuità in questo lager dell’accoglienza, dove la funzione di controllo su chi è etichettato come irregolare e senza documenti induce i reclusi alla rivolta distruttiva di questi centri nel migliore dei casi, all’annichilimento di sè nel peggiore.
Tramite contatti telefonici con i reclusi nel Cie, abbiamo appreso che un detenuto egiziano in attesa di permesso di soggiorno da 6 mesi ha tentato di suicidarsi stringendosi un lenzuolo intorno al collo. Un atto esasperato per dare fine all’avvilimento quotidiano che quel lager esercita sulle vite dei reclusi. La direzione del centro ha reagito con l’intervento di questurini e guardie di finanza per fermarlo.
Chi dirige luoghi come un Cie ha una grande vocazione ad avvilire i corpi e le menti delle vite, costringendoli a rinunciare alla propria libertà prima ancora di indurli al suicidio. Sempre secondo testimonianze di altri detenuti, il recluso preferiva essere espulso piuttosto che rimanere prigioniero nel lager gestito dalla Cooperativa Auxilium.