Ieri, 19 marzo 2021, nell’aula bunker del carcere di Lecce è stata pronunciata la sentenza di primo grado di tre processi per la lotta contro il TAP (Trans Adriatic Pipeline). Oltre cento persone sono state giudicate per vari reati, tutti riconducibili a manifestazioni pubbliche o a blocchi e rallentamenti dei mezzi, nonché per aver violato una zona rossa istituita con decreto prefettizio attorno al cantiere.
In 70 sono stati condannati con pene che vanno dai tre mesi ai quattro anni e oltre trenta persone hanno subito condanne superiori a un anno. Infine, il giudice ha ammesso le richieste delle parti civili: qualche migliaio di euro, definiti “simbolici” per TAP e 25 mila euro (meno simbolici) per un’offesa verbale subita da un dirigente di polizia da parte di un manifestante.
A caldo e rimandando a dopo commenti più approfonditi, preme evidenziare alcuni aspetti di questo processo.
Le condanne sono state più che raddoppiate rispetto alle richieste del PM, un dato che rende evidente l’orientamento del giudice Pietro Baffa. Lo stesso giudice è stato titolare di tutti e tre i procedimenti, portati a sentenza in tempo di record per la giustizia italiana: solo sei mesi. Estrema rapidità anche per il deposito della sentenza, annunciato in soli 15 giorni, un tempo davvero risicato per organizzare la difesa di un gran numero di imputati. Ci sembra inoltre significativo che tre distinti procedimenti si siano conclusi nel corso di un’unica udienza, così assumendo un carattere di esemplarità punitiva nei confronti di chi ha osato alzare la testa contro il progetto di questa multinazionale.
Chi ha presenziato alle udienze ha avuto la nitida impressione di assistere ad un dialogo fra il giudice e i testimoni di polizia, una corrispondenza d’amorosi sensi in cui non ha trovato spazio e attenzione né l’intervento – meticoloso e lucido- della difesa ma neppure quello della pubblica accusa che, di fronte all’imbarazzante farraginosità delle tesi accusatorie ha chiesto molte assoluzioni e pene generalmente basse. Basti citare lo specifico caso della violazione della zona rossa i cui confini è emerso fossero ignorati dagli stessi dirigenti di polizia che non si erano premurati di visionare la mappa allegata al decreto prefettizio, arrestando decine di manifestanti in una zona libera, in piena campagna e poi accusandoli di aver varcato un confine immaginario. Per quei manifestanti la pena richiesta dal PM è stata triplicata dal giudice.
Con ogni evidenza, il processo di primo grado al movimento No Tap si conclude con una sentenza ferocemente punitiva che, castigando indistintamente tutti gli imputati lancia un messaggio di intimidazione a chiunque intenda alzare la testa e lottare contro la rapacità di grandi opere come Tap: non è più tollerato interferire coi progetti del capitale.
Per questo riteniamo che sia necessario rispondere in questo territorio e ovunque con la ripresa della lotta e della mobilitazione sociale senza farsi intimidire.
Comunella Fastidiosa