Il Trans Adriatic Pipeline (TAP) è il tratto di un gasdotto che, insieme al turco TANAP compone il corridoio meridionale del gas. Questa conduttura dovrebbe fornire il combustibile fossile all’Austria attingendo alle riserve del mar Caspio (Azerbaijan) e transitando per l’Italia dove arriva attraverso un tunnel sottomarino con approdo nella marina di San Foca, in provincia di Lecce.
Qui, un tunnel sotterraneo percorre ancora pochi chilometri per riaffiorare in una stazione di spinta e poi in un terminale di ricezione che si estende per 12 ettari situati a poca distanza da quattro centri abitati. Contro la costruzione di questi impianti si sono mossi gli abitanti della zona, inizialmente attraverso diverse azioni legali intentate da un comitato cittadino, poi attraverso l’interposizione fisica contro i mezzi e i cantieri. Proprio di fronte al primo cantiere, nel 2017 è sorto un presidio di resistenza ed è cominciata un’intensa attività di contrasto durata circa due anni.
È a questa stagione di lotta che fanno riferimento i capi di imputazione che oggi vedono al banco degli imputati una novantina di oppositori accusati di vari danneggiamenti, resistenze, violazioni di divieti, oltraggi e manifestazioni non preavvisate. Il processo di primo grado arriverà a sentenza fra pochi giorni e presenta delle caratteristiche che, se ad un primo sguardo paiono singolari, ad un’osservazione più attenta rivelano continuità e coerenza con una ben rodata prassi giudiziaria e repressiva.
Un passo indietro. Dallo scorso settembre, nell’aula bunker del carcere di Lecce si stanno celebrando tre procedimenti formalmente distinti: uno tratta diversi episodi riconducibili a manifestazioni pubbliche o blocchi dei mezzi accaduti fra il 2017 e il 2018 ed è a carico di 46 persone; un altro imputa a 56 persone la violazione dell’ordinanza prefettizia che delimitava una “zona rossa” attorno al cantiere; il terzo riguarda una manifestazione nei pressi di un altro cantiere, per cui 25 persone sono accusate di aver danneggiato le
recinzioni e di aver oltraggiato le forze dell’ordine addirittura esibendo il dito medio in direzione di un elicottero in volo. Le udienze dei tre processi si celebrano quasi contemporaneamente con una calendarizzazione molto fitta e sono assegnati al medesimo giudice. Cardine delle tesi accusatorie sono le testimonianze rese dagli agenti della digos, valutati con esplicita dichiarazione del giudice “elementi probanti principali”. Tali testimonianze fanno riferimento sempre ad episodi pubblici e sono documentati da
fotogrammi che la Digos ha estrapolato dai filmati della polizia scientifica. Come dire, poesia tratta da prosa…
Una figura che merita attenzione è quella del Pubblico Ministero. Questo magistrato – procuratore antimafia- è anche assegnatario di un fascicolo scaturito dalla denuncia di 30 attivisti per i medesimi fatti riguardanti la “zona rossa” e rimasto- neanche a dirlo- lettera morta, nonostante sia fin troppo chiaro chi fossero quel giorno i responsabili dell’ordine pubblico e chi avesse potuto dare l’ordine di ammanettare i manifestanti in piena campagna per tradurli in caserma e in questura sui mezzi di ordinanza. Se questo elemento illumina sulla scelta di priorità operata dalla procura leccese nella gestione dell’attività giudiziaria, la nomina di un magistrato antimafia si inserisce in un solco già tracciato a livello nazionale, per cui si adottano le prerogative dell’antimafia nei reati di ordine pubblico. Da anni questa tendenza sempre più generalizzata associa i reati tipicamente ascrivibili all’area del dissenso e della conflittualità politica a quelli della criminalità organizzata, e lo fa attraverso l’accostamento dell’antimafia all’antiterrorismo, termine che nel 2015 si aggiungeva formalmente alla denominazione della divisione della magistratura antimafia. In questo modo nella prassi giudiziaria e nella strutturazione e interpretazione delle norme si è assottigliata, fino quasi a scomparire, la distinzione tra l’ambito del conflitto sociale e quello dell’eversione. Crediamo che il caso leccese che porta
un magistrato antimafia alla pubblica accusa per un reato contravvenzionale (come è quello per la violazione dell’ordinanza prefettizia) sia certamente un paradosso ma non un’originale stravaganza. Va da sé come ciò si traduca in una maggiore efficacia repressiva del dissenso espresso pubblicamente da gruppi più o meno numerosi e più o meno strutturati politicamente. Questo particolare dispositivo di contiguità si rafforza anche
grazie alla sempre maggiore vicinanza tra l’operato delle questure e quello delle procure. Una collaborazioneche si avvale di vari strumenti e prerogative nelle mani della polizia giudiziaria, non ultima l’applicazione della misura di sorveglianza speciale. Anche su questo aspetto i processi in corso sono esemplificativi. Senza entrare nel merito di inverificabili quanto verosimili scambi di poteri, ci preme mettere in luce la particolare
aggressività repressiva di alcune misure che sono state utilizzate “a pioggia” nel corso della lotta al gasdotto: le sanzioni amministrative per blocco stradale e i fogli di via. Nel primo caso sono state notificate multe fino a 4mila euro a chiunque abbia partecipato ai blocchi dei mezzi in arrivo al cantiere, spesso membri dello stesso nucleo familiare, con ciò provocando grave danno economico amplificato ulteriormente dai respingimenti in appello delle opposizioni.
Generoso anche l’uso del foglio di via, una misura di prevenzione personale disciplinata dal codice antimafia ed erogata dal questore. Nello specifico caso leccese la questura si è limitata ad elencare una serie di manifestazioni alle quali il destinatario ha partecipato, in cui sono stati rilevati dei reati non commessi necessariamente da quel soggetto, comminandogli la restrizione massima: tre anni di allontanamento dai comuni di Melendugno e le sue (molte) marine e da Lecce. Ciò, naturalmente ha creato non poco intralcio a coloro che in quei luoghi ci lavoravano, spesso con contratti stagionali e discontinui. chi, invece ha deciso di ignorare il foglio di via, non accettando, naturalmente, di abbandonare la lotta al gasdotto, ha ricevuto un vero e proprio diluvio di denunce, alcune formalizzate in decreti penali di condanna, attualmente in fase di opposizione, altre convogliate nei processi in svolgimento. Tale violazione, sebbene motivata da ragioni ben
diverse dal trarre profitto personale, rappresenta un reato formale, per cui il giudice non è tenuto a valutare la pertinenza del divieto emesso dal questore, limitandosi all’accertamento della presenza dell’imputato in quei luoghi. Del resto, le motivazioni che hanno mosso gli imputati a fare (o non fare) ciò di cui sono accusati sembra abbiano davvero poco interesse per il giudice che procede rapido, formale, burocratico, verso la
sentenza.
Al di là del pronunciamento di primo grado, già molti aspetti di questa vicenda sono chiari sebbene pubblicamente poco dibattuti: oltre alla consuetudine dell’uso delle prerogative antimafia è istruttivo l’uso dei provvedimenti di interdizione di porzioni di territorio. “Zona rossa” è ormai un termine familiare a cui si rischia pericolosamente di abituarsi. Con questo dispositivo l’autorità prefettizia può chiudere piazze, strade, quartieri o, come è accaduto qua, vaste estensioni extraurbane. Retrodatando alla zona rossa genovese durante il g8 del 2001, passando per i cantieri dell’alta velocità in Valle di Susa, fino a quelli del gasdotto salentino, per giungere all’attualità della cosiddetta emergenza sanitaria, la chiusura
militarizzata di porzioni di territorio rappresenta una delle peculiarità geopolitiche dei tempi in cui viviamo. E, se ciò non fosse sufficientemente chiaro, il caso Tap dimostra come l’interesse privato di una grande multinazionale travalica, anzi seppellisce quello pubblico. Di chi è, per davvero, la casa in cui abitiamo?
La vicenda dell’opposizione a Tap, sebbene da sempre connotata da una terribile sproporzione di forze, ha coagulato una certa consapevolezza rispetto a questa domanda la cui risposta non è affatto scontata.