Porto mercantile, varco nord. L’hotspot a Taranto

Riproponiamo un articolo sull’Hotspot di Taranto, tratto dall’opuscolo “La carta è solo carta. Sulla detenzione amministrativa in Puglia”, pubblicato a Lecce nell’agosto 2016.
Creato per trattenere, identificare e schedare gli immigrati intercettati nel Mediterraneo, al campo di Taranto sono inviati anche molti dei migranti rastrellati dalla polizia a Ventimiglia, Milano e nel nord Italia in generale, fra chi tenta di passare il confine con la Francia. Condotti al sud in autobus, rinchiusi e schedati, molti tornano poi sul territorio in condizione di marginalità e “clandestinità” fabbricate ad arte dal meccanismo legislativo.

Per avere un’idea di cosa sia il nuovo hotspot di Taranto non si può fare a meno di fare cenno a cosa è questa città la cui vita è da sempre stata assoggettata all’arroganza del potere degli Stati e delle loro strategie di dominio.
Guerra, industria, repressione, avvelenamento regnano sui quartieri di una città da sempre condizionata dalla sua posizione di vedetta sul Mediterraneo. Un mare sui cui fondali sono adagiati i sottomarini di guerra con le loro testate nucleari, insieme ai resti di chi dalla guerra ha provato a fuggire.
Guerra, capitale e repressione assumono a Taranto una forma nitida e tangibile: quella del muro dell’arsenale, quella delle ciminiere dell’Ilva, della raffineria dell’Eni, e in ultimo quella dei tendoni dell’hotspot. Tutti anelli di una stessa catena.
In questa città ben tre chilometri di costa sono sottratti agli abitanti dalla servitù militare dell’arsenale che, nel mezzo del centro urbano si estende per 90 mila ettari, circondato da un muro alto 7 e lungo 3250 metri. In quello che è uno dei bacini navali più grandi d’Europa, nel 2005 veniva inaugurata la scuola sommergibili della Marina Militare, con mezzi a disposizione anche delle forze NATO e di altri alleati. L’anno prima era stata inaugurata la Stazione Navale nel Mar Grande: altri 60 mila ettari di acqua e terra preclusi per servitù militari.
Come è noto il grande mostro di Taranto rimane il suo gigantesco impianto siderurgico. Accanto alla fabbrica di cemento Cementir e alla raffineria dell’Eni che emette in modo incontrollato gas altamente velenosi nell’atmosfera, sorge l’Ilva: una delle più grandi acciaierie d’Europa. Su una superficie pari a tre volte quella della città, produce acciaio con un processo a ciclo completo: ciò vuol dire che all’interno del siderurgico entrano le polveri minerali ed escono i semilavorati, tubi e lamiere. Giustificato dallo sviluppo e dalla modernità, Taranto è diventata la prima città d’Europa per incidenza tumorale e oggi produce ben il 92% della diossina italiana. Un primato non da poco.
Come da protocollo, le agenzie governative chiamate a valutare la qualità dell’aria hanno fatto il loro lavoro anche in occasione dell’allestimento dell’hotspot, giacché il suo posto era stato individuato proprio al di sotto dei nastri trasportatori (una rete di quasi 200 km su cui viaggiano all’aria aperta polveri minerali e semilavorati) e a ridosso del varco Nord del porto mercantile. Il monitoraggio è durato circa 24 giorni dopo i quali sono stati rilevati sforamenti di quattro volte oltre il limite consentito per la dispersione in atmosfera di polveri sottili. Il dato, tuttavia, non è stato ritenuto rilevante e l’hotspot è stato inaugurato a metà del marzo 2016. Il fatto non stupisce se teniamo conto che l’ARPA è la stessa agenzia che per anni ha taciuto sugli sforamenti dell’Ilva e della Cementir. Inoltre, se abbiamo in mente che il committente di questa relazione è lo Stato italiano, lo stesso che con 10 decreti ha legittimato l’attività di una fabbrica che continua a mietere morte, il fine appare più chiaro. Il capitalismo, il profitto, sempre loro a dettar legge.

L’intenzione di aprire in città un campo di identificazione per stranieri era comparsa già il 13 maggio 2015 nella sede del Parlamento europeo di Bruxelles. Una ditta di Trepuzzi, in provincia di Lecce, la R.I., ha vinto il bando da 900 mila euro per la costruzione della struttura che si estende sull’area di un vecchio parcheggio, per 10 mila metri quadri ed ha una capienza ufficiale di 400 posti letto.
All’interno del doppio cordolo di muro e rete metallica sono posizionati una decina di container per le prestazioni sanitarie e i controlli di polizia e due grandi tensostrutture, una adibita a mensa e una a dormitorio. Dopo quattro mesi i tendoni bianchi del campo sono diventati rosa, la caratteristica tinta ferrosa che colora i palazzi del rione Tamburi, quello a ridosso del siderurgico. Ora anche gli immigrati rischiano di beccarsi un tumore, proprio come noi, e Taranto dimostra a tutti cosa sia davvero l’integrazione…
L’insediamento di un nuovo ed ulteriore luogo di oppressione in questa città è avvenuto nella quasi completa indifferenza sociale. Il problema pare non riguardare i tarantini, già rinserrati e isolati nei loro drammi personali. Le malattie mortali o fortemente invalidanti causate dai veleni dell’industria non sono riuscite a scatenare la rabbia sociale contro i responsabili di questo disastro. In questa condizione di spossessamento e disperazione sociale è facile rimanere indifferenti di fronte alla costruzione di una frontiera, oppure addirittura di giustificarne l’esistenza, in funzione difensiva da un vago ma minaccioso pericolo che viene da lontano. Eppure questo nuovo campo di concentramento per senza documenti rende palese che la frontiera chiama tutti a fornire una giustificazione produttiva dei nostri spostamenti e delle nostre esistenze, certificare carte alla mano la nostra disponibilità ad essere mappati e sfruttati all’interno dei sistemi economici. Quelli che godono del diritto di cittadinanza hanno la possibilità di ammalarsi nel petrolchimico o nel siderurgico o di suicidarsi quando perdono il lavoro. Quelli che cittadini non sono hanno la possibilità di fornire le loro generalità per ricevere in cambio un badge, moderno contrassegno per internati, che darà loro un diritto di sopravvivenza lungo sette giorni, in una città malata e blindata dalle guardie.
Questo cartellino viene rilasciato all’interno dell’hotspot solo a coloro che accettano di farsi identificare e dà accesso ai servizi minimi per sette giorni, dopo i quali, di regola, si viene smistati nelle strutture della prima e seconda accoglienza. Chi rifiuta l’identificazione, resta rinchiuso nell’hotspot fino al trasferimento in un Cie o all’emissione di un provvedimento di espulsione.
Con il badge ben in vista gli stranieri possono allontanarsi dal centro fino alle sette di sera e possono consumare due pasti al giorno all’interno della struttura. Il metodo pare ora provocare meno grattacapi ai gestori, dopo che nelle prime settimane di vita dell’hotspot si erano verificati disordini e fughe.
Nel marzo 2016, ad esempio, duecento marocchini destinatari di respingimento differito erano stati buttati fuori senza cibo né soldi e si erano radunati alla stazione, bivaccando per strada senza alcuna possibilità di andare via.
A metà aprile 2016, circa 80 migranti erano fuggiti dall’hotspot rifiutando di farsi identificare. In quella circostanza si scatenava una vera e propria caccia allo straniero condotta non solo dai militari e dalle forze di polizia ma pure dai vigili urbani. Particolare anche il ruolo dell’azienda comunale dei trasporti, l’Amat, i cui autisti non hanno rifiutato di prestare il loro contributo, partecipando attivamente alle retate. Riacciuffati per le strade della città, i fuggiaschi furono ricondotti nell’hotspot a bordo dei mezzi pubblici della suddetta Amat.
La possibilità, sebbene limitata, di circolazione degli immigrati ha fatto sì che l’hotspot abbia diffuso la sua attività di controllo e repressione in tutta la città. Infatti non c’è modo di capire cosa sia quel posto senza guardare le strade pattugliate.
Eppure in pochi hanno percepito come una minaccia la presenza dell’esercito per le strade. Armati di mitra, con le loro camionette riportano a chiare lettere il nome della loro missione: strade sicure. Stazioni dei treni e autobus sono presidiate dagli agenti e non è possibile nemmeno avvicinarsi ai binari se non si è in possesso di un biglietto. Va da sé che il colore della pelle è il primo indicatore di sospetto per i controllori. In pratica oggi Taranto è una vera trappola. Eppure, in questi mesi, provando solo a guardare verso quel luogo infame, abbiamo visto fughe bellissime, corse con il sangue agli occhi e la fame di libertà di chi ha sfruttato ogni varco, ogni minuto di distrazione dei secondini per riprendersi la vita.
Immediatamente commissariata per presunti brogli nei bandi di attribuzione, la gestione dell’hotspot è stata affidata dalla Prefettura al Comune di Taranto che ne ha demandato la direzione al comandante dei vigili urbani, Michele Matichecchia. Una delle sue prime trovate è stata quella di ripulire con solventi chimici i polpastrelli ricoperti di colla di chi cercava di non farsi identificare per poter proseguire il suo cammino senza restare intrappolato in Italia.
I servizi interni come ristorazione, traduzione, assistenza sanitaria, sono ancora attribuiti in modo estemporaneo ed emergenziale a piccole ditte locali, mentre la mediazione culturale è nella quasi esclusiva competenza di alcune Onlus, fra cui spicca l’associazione “Noi e Voi”. Diretta da un prete, l’associazione si definisce dedita al “volontariato penitenziario”, infatti oltre all’hotspot tarantino opera pure nel locale carcere, evidentemente a proprio agio fra repressione e pietas cristiana.

Questo bel “fiore all’occhiello” della detenzione dei migranti ultimamente è affiancato da un’altra struttura che ufficialmente ne è indipendente. Si tratta del centro di accoglienza straordinaria sito ai margini del quartiere Paolo IV. Questo capannone industriale è da tempo utilizzato come residenza per immigrati benché solo da pochi giorni abbia assunto la denominazione ufficiale di CAS. Ancora una volta è l’associazione “Noi e Voi” ad erogare i servizi interni.

[La carta è solo carta, agosto 2016]

L’opuscolo completo si può leggere qui: la_carta_è_solo_carta.pdf

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